
A ventotto anni ho firmato un contratto,
dopo anni di nero e di promesse vuote.
Mi sembrava vita che ricominciava:
soldi veri, dignità, il futuro in mano.
Ho ringraziato quel lavoro:
con lui ho costruito una famiglia,
ho messo su casa,
ho portato pane a tavola.
Ma a quale prezzo?
Notti rubate al sonno,
corpo spezzato sulle macchine,
salute barattata per uno stipendio.
E oggi cosa resta?
Dolori che mi svegliano prima della sveglia,
cassa integrazione come condanna silenziosa,
troppo vecchio per reinventarmi,
troppo giovane per riposare.
Il futuro dei metalmeccanici non c’è più:
fabbriche che chiudono,
mani che restano sospese,
sudore che non vale niente.
Siamo una categoria allo sbando,
futuro cancellato come ruggine sul ferro.
E mi guardo allo specchio:
vedo un uomo che ha dato tutto,
in cambio di cicatrici e incertezze.
Eppure ancora parlo,
ancora resisto,
perché la nostra voce
non devono seppellirla nel silenzio.
Abbiamo dato tutto
e ci hanno tolto tutto.
Siamo ruggine,
siamo numeri,
siamo voci che gridano:
non spegneteci!
P.S.: se dobbiamo fare uno sciopero, dobbiamo farlo a Roma, altrimenti è inutile.
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